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Recensione e riflessione di Arturo Casoni sul libro di Domenico Starnone:  Autobiografia erotica di Aristide Gambia

Romanzo – Einaudi 2011 (Pag. 456 € 20,00)

Starnone si è fatto conoscere dal grande pubblico dei lettori con il suo Via Gemito, vincitore del Premio Strega nel 2001. Torna ora a far parlare di se – ma ne ha scritti altri di libri, dal 2001 a oggi – con questo romanzo che affronta in forma romanzata un tema difficile e impegnativo: la storia della sessualità in questa ultima metà di secolo.

Si potrebbe dire che, mutatis mutandis, raccoglie la sfida lanciata da Foucault. Argomento interessante per lo psicoanalista che si sforza di ascoltare i rumori che vengono dal sottofondo della società, i segnali di cambiamento che lo obbligano a mettere in discussione il suo mestiere e le teorie che lo informano. Questa è la ragione che motiva la mia attenzione al libro: più antropologica che letteraria, lasciando la seconda area agli addetti.

La lettura delle svariate centinaia di pagine è agile anche grazie all’impianto della narrazione, con un variare di registri e di piani temporali – si attraversa tutta la vita erotica di Aristide, che si muove nell’oggi della narrazione tra i 60 e i 70 anni, con continui rinvii all’infanzia, all’iniziazione, fino alla minaccia di impotenza senile – che producono le quattro parti-racconti del libro: Una vecchia amica di Ferrara, La bella compagnia delle donne, Mia madre, Le irrintracciabili.

Il linguaggio della narrazione è quello del ‘pensato’, politicamente scorretto, della pirotecnica del dialetto napoletano riguardo alle cose della sessualità. Gambìa è nato lì, a Napoli, e si è costituito dentro quella cultura della sessualità maschile degli anni ’50, che poi si è trasformata nella ‘rivoluzione sessuale’ del ’68, che si è nutrita della cultura letteraria di sinistra, e che in ultimo arriva fino alla mitologia linguistica dell’onorevole Berlusconi. Ma il cazzo è rimasto sempre il cazzo, la fica sempre fica si è chiamata.

Il plot è presto detto. Una lettera femminile che arriva ad Aristide Gambìa attorno ai suoi sessant’anni – editore sufficientemente affermato con ambizioni letterarie, molto di sinistra, con tre matrimoni alle spalle e svariati e anonimi figli in giro, una vita costellata di coiti sia intra che extra-coniugali – presentifica un episodio della sua giovinezza: una scopata con una sconosciuta di cui ricorda poco o nulla. Di lì parte una sorta di ripensamento su di sé, sulla propria vita costellata di turbinii sessuali, sulla quasi scoperta dell’esistenza delle femmine.

La voglia e il coraggio di raccontarsi di Gambìa, la spietata autoironia dell’intellettuale, l’intelligenza del soggetto che vorrebbe dar senso alla sua esperienza e ai suoi desideri, l’attrazione che prova per quei corpi, la saggezza sviluppata con gli anni, non riescono a fargli incontrare la femmina, che rimane “un buco dentro cui infilarlo”. E’ spietato con sé Gambia, e questo lo salva. Non gli serve la sua formazione da femministo a farlo sentire congruo nell’incontro con il corpo della femmina.

Più di una volta la lettura del libro ha fatto tornare alla mente di chi scrive una frase contenuta in un libro di uno psicoanalista – Sandro Gindro, dal titolo A Tiresia – che è stato scritto nel 1983, quando l’Aristide in questione era ancora giovane e ‘potente’. La frase è: “tutti gli eterosessuali sono perversi”. Questa frase provocatoria e incivile io la leggo così:  la nostra cultura della sessualità, e dell’eterosessuaità in paricolare, del rapporto tra i maschi e le femmine, non ci educa a riconoscere l’altro sesso.

Invito tutti, maschi e femmine, a leggere il libro. Vi troveranno qualcosa che gli appartiene. Invito anche gli psicoanalisti a leggere il libro, ripetendosi mentalmente durante la lettura il mantra gindriano: “tutti gli eterosessuali sono perversi”. (Pubblicato il 13 novembre 2011)